Recupero

Guarire dalla malattia mentale si può? Come si può 'guarire' da se stessi?

Ma la malattia mentale esiste? Si può definire malattia un carattere, una diversa attitudine, un'emozione intensa? Purtroppo secondo la psichiatria organicista, la malattia mentale esiste ed è inguaribile, tuttavia curabile necessariamente con i farmaci, anche se non è mai stato dimostrato alcuno squilibrio chimico alla fonte né che gli psicofarmaci curino qualcosa. Numerose esperienze di 'sopravvissuti' e indagini indipendenti dimostrano invece l'esistenza di una 'trappola farmacologica' molto subdola che, lungi dal 'guarire', favorisce il mantenimento o la cronicizzazione della supposta malattia.
Questo spazio vuole dare la possibilità ai cosiddetti malati mentali di conoscere le reali implicazioni dei farmaci , di cui spesso ne abusano, di riflettere sulla propria condizione, di acquisire nuove conoscenze diventando capaci di riprendersi il controllo della propria vita e delle proprie emozioni.
Si potrà 'guarire' soltanto quando ci allontaneremo dal nostro punto di vista limitato per abbracciare il problema nella sua globalità, con un approccio di tipo olistico.

Attenzione: È potenzialmente pericoloso dismettere psicofarmaci senza un'attenta pianificazione. È importante essere bene istruiti prima di intraprendere qualsiasi tipo di interruzione di farmaci. Se il vostro psichiatra accetta di aiutarvi a farlo, non date per scontato che sappia come farlo al meglio, anche se dice di avere esperienza. Gli psichiatri non sono generalmente addestrati sulla sospensione e non possono sapere come riconoscere i problemi di astinenza. Numerosi problemi di astinenza sono mal diagnosticati come problemi psichiatrici. Questo è il motivo per cui è bene educare se stessi e trovare un medico che sia disposto ad imparare con voi. In realtà tutti i medici dovrebbero essere sempre disposti a fare questo ai loro pazienti che lo desiderano.

giovedì 15 novembre 2018

Felicità forzata e suicidio: cosa siamo diventati?

Come ho scritto nell'articolo precedente continuo con lo stesso tema anche per questo nuovo articolo. Non credo sia necessario aggiungere altro ai pensieri che seguiranno e a quello che ho già scritto in merito. Vorrei però inserire in questo preambolo un brano del grande scrittore e poeta  Hermann Hesse, a posteriori etichettato  'bipolare' da esimi psichiatri. Questi brani provengono da un suo famoso romanzo intitolato 'Il lupo della steppa'. 

"A questo punto dobbiamo osservare che è errato definire suicidi solamente coloro che si uccidono davvero. Tra questi ci sono anzi molti che diventano suicidi quasi per caso e il suicidio non fa necessariamente parte della loro natura. Tra gli uomini senza personalità, senza un'impronta marcata, senza un forte destino, tra gli uomini da dozzina e da branco ce ne sono parecchi che commettono suicidio senza per questo appartenere per carattere al tipo dei suicidi, mentre viceversa moltissimi di coloro che vanno annoverati per natura fra i suicidi, anche forse la maggior parte, effettivamente non attentano alla propria vita. Il "suicida" (Harry era uno di questi) non occorre che abbia uno stretto rapporto con la morte: lo si può avere anche senza essere suicidi. Ma il suicida ha questo di caratteristico: egli sente il suo io, indifferente se a ragione o a torto, come un germe della natura particolarmente pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in pericolo, come stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per farlo precipitare nel vuoto. Di questa sorta di uomini si può dire che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile, per lo meno nella loro immaginazione. La premessa di questo stato d'animo che appare tale fin dalla giovinezza e accompagna costoro per tutta la vita, non è già una deficienza di energie vitali, ma, al contrario, fra i "suicidi" si incontrano nature straordinariamente tenaci, bramose e persino ardite. Ma come esistono complessioni che nelle più lievi malattie tendono alla febbre, così coloro che chiamiamo "suicidi" e sono sempre molto sensibili, hanno la tendenza, alla minima scossa, a darsi intensamente all'idea del suicidio. Se possedessimo una scienza coraggiosa, con la responsabilità di occuparsi dell'uomo invece che del meccanismo dei fenomeni vitali, se avessimo, diciamo, un'antropologia, una psicologia, questi fatti sarebbero noti a tutti.
Ciò che abbiamo detto dei suicidi riguarda beninteso soltanto la superficie, è psicologia, vale a dire un settore della fisica. Dal punto di vista metafisico la faccenda è diversa e assai più limpida 
perché qui i "suicidi" sono affetti dalla colpa  dell'individuazione, sono quelle anime che non considerano scopo della vita il perfezionamento e lo sviluppo di se stesse, bensì il dissolvimento, il ritorno alla Madre, il ritorno a Dio, il ritorno al Tutto. Tra costoro moltissimi sono assolutamente incapaci di commettere realmente il suicidio, perché lo considerano peccato. Ma per noi sono pur sempre suicidi perché vedono la redenzione nella morte invece che nella vita e sono pronti a buttarsi via, ad abbandonarsi, a spegnersi e a ritornare all'inizio.
Come ogni forza può (in certe circostanze deve) diventare una debolezza, così viceversa il suicida tipico può fare della sua debolezza apparente molte volte una forza e un sostegno, anzi lo fa molto spesso. Uno di questi casi era quello di Harry, il lupo della steppa. Come migliaia di suoi pari egli faceva dell'idea che la via della morte gli era sempre aperta davanti a sé non solo un giuoco di fantasia giovanile e malinconico, ma  precisamente un conforto e un appoggio. E' vero che, come in tutti gli uomini di questo genere, ogni commozione, ogni dolore, ogni penosa situazione della vita suscitava in lui il desiderio di sottrarvisi con la morte. Ma a poco a poco questa inclinazione gli si tramutò in una filosofia favorevole alla vita. L'assiduo pensiero che quell'uscita di soccorso era continuamente aperta gli dava forza, lo rendeva curioso di assaporare dolori e malanni, e quando stava proprio male gli capitava di pensare con gioia rabbiosa, come si trattasse di un male altrui: "Son curioso 
di vedere fin dove arriva la sopportazione umana! Una volta raggiunto il limite del tollerabile mi basta aprire la porta e sono salvo". Ci sono moltissimi suicidi ai quali questo pensiero conferisce energie insolite.
D'altro canto tutti i suicidi conoscono anche la lotta contro la tentazione del suicidio. In qualche angolino della mente ognuno ha la convinzione che il suicidio è bensì una via d'uscita ma, in fondo, un'uscita di soccorso piuttosto volgare e illegittima, e che è più nobile, più bello lasciarsi vincere e abbattere dalla vita che dalle proprie mani. Questa  consapevolezza, questa cattiva coscienza induce la maggior parte dei "suicidi" a una lotta diuturna contro la tentazione. Essi combattono come il cleptomane combatte contro il proprio vizio. Anche il lupo della steppa conosceva questa lotta, l'aveva combattuta con armi diverse. Infine, all'età di circa quarantasette anni gli venne un'idea felice, non priva di umorismo, che più volte ebbe a fargli piacere. Fissò al suo cinquantesimo compleanno il giorno in cui si sarebbe concesso il suicidio. In quel giorno, così convenne con se stesso, avrebbe avuto la libertà di servirsi o non servirsi dell'uscita di soccorso secondo il capriccio della giornata. Qualunque cosa gli capitasse, una malattia, la povertà, un dolore, un'amarezza: tutto aveva un termine segnato, tutto poteva durare al massimo quei pochi anni, mesi e giorni, il cui numero diventava sempre più esiguo. Difatti incominciò a sopportare più facilmente certi guai che prima l'avrebbero torturato più profondamente e più a lungo o forse scosso fin dalle radici. Quando stava particolarmente male per qualsiasi ragione, quando al suo isolamento e alla vita deserta si aggiungevano perdite o dolori particolari, egli si rivolgeva a quei dolori dicendo: "Aspettate, 
ancora due anni e avrò ragione di voi!". Poi si sprofondava con amore nell'idea di quel cinquantesimo compleanno e immaginava la mattina in cui sarebbero arrivate le lettere di augurio, mentre lui, sicuro del proprio rasoio, prendeva commiato da tutti i dolori e chiudeva la porta dietro di sé. Allora addio artrite nelle ossa, addio malinconie, emicranie e dolori di ventre!"


Il suicidio in una cultura di felicità forzata: di chi è la colpa?

Di Megan Wildhood
14 giugno 2018


I suicidi delle celebrità hanno la possibilità di incoraggiarci a rifiutare le stanche e inaccurate spiegazioni sulle malattie mentali, sulla depressione e su cosa fare al riguardo. Il tasso di suicidi, a partire dal 2016, è salito al livello più alto da quasi 30 anni, con un aumento in ogni fascia di età, tranne gli anziani. Negli Stati Uniti Una persona ogni 13 minuti muore per suicidio; gli americani hanno molte più probabilità di uccidersi l'uno con l'altro. Si stima che ogni suicidio ferisca emotivamente altre dieci persone e costi circa 1 milione di dollari tra spese mediche e stipendi persi. Ciò equivale a una crisi di salute pubblica, e dovremmo mobilitarci come abbiamo fatto con  l'epidemia di AIDS e il flagello del cancro al seno. Possiamo - e dobbiamo - fare altrettanto per la crisi dei suicidi.

Come ha detto Noel Hunter, "Quando 45.000 persone all'anno preferiscono morire piuttosto che vivere in questo mondo, potrebbe essere per noi tutti un motivo per prendere in considerazione ciò che sta accadendo nel mondo." Cosa sta succedendo nel mondo? Una delle storie principali che ripetiamo a noi stessi è che la malattia mentale causa il suicidio. Perpetuiamo questa idea che le persone che si tolgono la vita sono malate, forse come un modo inconscio di tentare di evitare sensi di colpa o rimpianti per ciò che avremmo potuto fare o per chi avremmo potuto essere per le persone che stiamo perdendo in questa pubblica crisi sanitaria. È quasi come se la neuroscienza non ci abbia mostrato quanto sia dannoso l'isolamento per gli esseri umani. Scuotiamo la testa  ed esprimiamo stupore sul fatto che Kate Spade, Anthony Bourdain, Robin Williams, ecc., si sentissero così orribili - "erano sempre così felici" dicono le persone "più vicine" a loro.

Naturalmente erano "sempre felici". Viviamo in una cultura di positività forzata e felicità obbligatoria, che in qualche modo rimane intatta rispetto alle attuali realtà politiche, sociali, ecologiche ed economiche globali. Non ha importanza che l'ottimismo incrollabile di fronte ai terribili pericoli dell'umanità sia in realtà il negazionismo delirante. Non ha importanza che viviamo in un mondo in cui l'ingiustizia viene sistematicamente premiata e l'avidità di pochi è letale per molti; un mondo in cui il posto dove sei nato determina sul resto della tua vita più di qualsiasi quantità di perseveranza o duro lavoro (posso anticipare ora chi mi odierà per questo, quindi mi limiterò a notare che, se la meritocrazia fosse reale, cioè, se il duro lavoro fosse riconosciuto e compensato in modo proporzionale, le persone più ricche del mondo sarebbero le donne nell'Africa sub-sahariana che trasportano l'acqua per le loro famiglie otto ore al giorno). Per non parlare del recente promemoria geopolitico secondo cui l'unico pianeta conosciuto per sostenere la vita potrebbe essere cancellato in qualsiasi momento a causa dell'ego incontrollato di alcuni uomini troppo potenti, anche se la sua bellezza e i suoi poteri di promozione della vita sono metodicamente e completamente smantellati come una questione di "civilizzazione". No, se sei angosciato, deve essere il tuo cattivo atteggiamento (che è una scelta) o il tuo cervello rotto (che non è una scelta); Dio non voglia guardare altrove al di fuori del sé.

Il recente eccesso di opinioni scatenato dai suicidi di alto profilo di questo mese - tutti a consigliare amici e familiari di persone care che lottano con la depressione per fare cose come "incoraggiarli ad ottenere aiuto", "non cercare di correggerli" "Essere lì per loro", ecc., con il numero della Hotline nazionale del suicidio in fondo - sono, quindi, un esempio sbalorditivo di dissonanza cognitiva collettiva. Com'è che i nostri media propinano gli  stessi consigli - vari remix di frasi come "essere lì l'uno per l'altro" e "incoraggiare le persone a ricevere aiuto" - ogni volta che una persona famosa si uccide, mentre contemporaneamente, nel nome dell' "auto-cura" , si incoraggia  al rifiuto con frasi come "eliminare dalla vita le persone tossiche " o "allontanarsi dalle persone negative" ?

 Ancora più importante, come può diventare praticabile? Com'è possibile che permettiamo e persino seguiamo questo consiglio? con orgoglio, senza domande? Cosa dà a qualcuno il diritto di etichettare un altro essere umano come "tossico"? Come può non essere del tutto egoistico rimuovere le persone negative dalla tua vita? Le persone che provano tristezza, disperazione e angoscia senza sosta non vogliono aggiungere (ancora più) isolamento al loro dolore, quindi indossano una maschera sorridente e felice e si impegnano "forzando il loro carattere" e qualsiasi altra cosa la nostra cultura abbia etichettato come costante ottimismo, finché non ce la fanno più.

Se chiamare questa hotline funziona o meno (ho trovato quelli che rispondono al telefono in modo estremamente condiscendente e incapace di relazionarsi empaticamente), se davvero ti preoccupi delle persone così piene di dolore che preferirebbero morire piuttosto che vivere un altro giorno, in realtà dovresti provare a affrontare il problema. Inizia ad essere la persona che il tuo amico chiamerebbe piuttosto che indirizzarla verso un estraneo, un esperto o qualcuno che dovrebbero pagare per ascoltarlo. Smettila di dire "non sei solo" e inizia a dire "Sono qui con te".

Ma vai oltre. Questo è un mondo sempre più terrificante e doloroso per un numero crescente di persone - in gran parte a causa del capitalismo metastatico come ho già detto. Se la psicoterapia è meno efficace per le persone povere, forse i veri problemi sono la povertà e la disuguaglianza galoppante, che non sono casuali ma i risultati diretti del capitalismo sfrenato che tutti abbiamo accettato come parte del "modo in cui stanno le cose",  piuttosto che l'individuo che cerca la terapia. Forse è legittimamente doloroso e motivo di disperazione vivere poveri in un mondo in cui  poche élite auto-nominate ostentano ricchezza e potere e non mostrano alcuna preoccupazione per la vita a meno che non possa arricchire i loro imperi. Se ti importa della depressione, organizza un blocco di sfratto; opponi resistenza ai giganti aziendali disposti a inquinare l'aria, l'acqua, il suolo e il cibo; trova chi ha il potere politico nella tua comunità e implacabilmente organizza petizioni, picchetti di  protesta finché non praticano la giustizia.

E smettiamola di partecipare alla diffusione di concezioni suicide dannose e allarmanti. Ce ne sono  molte; alcune di quelle che indeboliscono maggiormente la capacità degli amici e dei propri cari di rispondere con compassione ed efficacia a qualcuno che sperimenta pensieri suicidi (e che ci tengono come una società nel rispondere a questa crisi nel modo in cui abbiamo risposto al cancro o all'AIDS) sono frasi come "il suicidio è segno di debolezza, di egoismo o codardia".

Le persone che portano a termine la propria vita vengono considerate deboli come se l'essere deboli fosse una cosa negativa. La combinazione di capitalismo, individualismo e una concezione  degli esseri umani spietatamente propagata come esseri competitivi per natura, hanno demonizzato la debolezza e l'hanno trasformata in uno spauracchio piuttosto che una caratteristica della condizione umana che, se abbracciata, potrebbe portare a relazioni di guarigione e comunità più resilienti, due baluardi contro il suicidio. L'isolamento - cioè, il sentimento di essere soli e senza connessioni significative o persone che si preoccupano di te - uccide. Dirigere le persone verso i professionisti piuttosto che imparare come avere amicizie reali e durature approfondisce l'isolamento.

Discuterò sulla mia esperienza di lavoro in un centro di crisi che le persone che vivono con pensieri così oscuri sono alcune delle persone più forti che abbia mai incontrato, ma, anche se il suicidio fosse appannaggio dei deboli, dobbiamo chiederci cosa c'è di sbagliato nell'essere deboli. Chi è che ci sta dicendo che essere deboli è categoricamente un fallimento o merita delle critiche? Un sistema pervasivo che richiede sacrifici per tutta la vita, energia e risorse delle masse per arricchire un numero arbitrario di persone,  quindi far vedere le emozioni, le preferenze e le lotte come opzionali, scomode e dispendiose - ecco chi.

Ma gli esseri umani sono creature vulnerabili che dipendono da così tante cose al di fuori di sé stesse per sopravvivere, per non parlare di prosperare. Siamo nati completamente indifesi; ci vogliono decenni per arrivare all'età adulta, anche se non siamo mai pienamente in grado di farcela da soli neanche allora; invecchiamo di nuovo e forse di nuovo impotenti moriamo. La debolezza è inerente alla condizione umana e il possesso di ciò, da non denigrare  o cercare di evitare, è il vero potere.

L'affermazione che il suicidio è egoista è il culmine dell'ipocrisia in una società che consiglia alle persone che non possono vivere per gli altri, che "dovrebbero vivere solo per se stessi" e chiede ai suoi membri di provvedere a tutti i loro bisogni, incluso il fondamentale bisogno di connessione, da soli. Come ho appena discusso, la debolezza è una caratteristica centrale della condizione umana, motivo per cui abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Ognuno di noi è gravato dai propri limiti unici che non possiamo superare da soli. La richiesta della nostra società che ogni persona si prenda cura da se per ogni esigenza che ha, rafforzata dall'adorazione selettiva di esperti (ci sentiamo liberi di interrogare gli scienziati sul clima e allo stesso tempo di portare i nostri amici sconvolti dai "professionisti"), va contro la natura umana, in una cultura che non ha uno sbocco sicuro per il dolore che il nostro mondo sociale ci infligge.

Inoltre, perché ci interessa solo che la gente "non consideri gli altri al di fuori di se stessi" quando si è tolta la vita mentre è altrimenti accettabile - promosso in modo aggressivo, persino -  "cercare il numero uno" a tutti i costi? 
Saturiamo il nostro ambiente sociale con incentivi per l'auto-realizzazione. Rafforziamo l'idea che, per vincere, devi prima metterti in primo piano, mantenere relazioni che ti siano di beneficio e buttare via quelle che non lo sono. Ci viene detto in tanti modi diversi che, come ha detto Anthony Robbins, "il successo sta facendo quello che vuoi quando vuoi con chiunque tu voglia", e non possiamo trovare nessuna forza compensativa che possa metterlo in discussione e chiamarlo per quello che è: sociopatia. Virtù come gentilezza, empatia e integrità, o sono  tokenizzate per pochi like su Facebook, inquadrate come irraggiungibili per tutti tranne alcuni "santi" come Madre Teresa o viste con sospetto: mettiamo in discussione i motivi di persone sincere e generose e ci chiediamo cosa devono volere da noi. 

Facciamo pressioni sulle persone fin dai primi anni della loro vita perché si preoccupino solo di se stessi, di usare tutti i mezzi necessari, comprese le altre persone, per ottenere ciò che vogliono dalla vita, e poi, alle persone che abbiamo alienato e isolato al punto di disperazione che terminano la vita a causa della loro disperazione (che ci è stato insegnato a interpretare come "negativo" o "tossico") li accusiamo di non preoccuparsi degli altri. Se il suicidio fosse egoista, sarebbe da chiedersi perché?

Se il suicidio fosse vigliaccheria, perché non viene chiesto quale sia la paura? Data la situazione attuale del mondo e la precarietà della vita in generale, la paura è in realtà una risposta inappropriata? Accusare qualcuno di aver paura come se fosse un difetto della persona significa fraintendere seriamente la funzione delle emozioni umane. In una cultura che distorce le emozioni tanto quanto la nostra, non sorprende che così tante persone considerino la paura come una debolezza, ma abbiamo già parlato di cosa sia davvero la debolezza. La paura, quindi, è in realtà il riconoscimento di quei limiti e di quanto poco ciascuno di noi può realmente avere un controllo nella vita. La paura è una risposta appropriata allo stato attuale del mondo. La paura è un segno che stai prestando attenzione e hai una visione salutare di quanto sia piccolo il tuo potere personale rispetto a quanto sono grandi e profondi i problemi che non affrontiamo nemmeno. Il cambiamento climatico, l'intelligenza artificiale , il totalitarismo permanente - queste sono legittime minacce mortificanti; affermare il contrario è peggio del negazionismo. È un abuso emotivo.

La nostra cultura è estremamente emotivamente abusiva. Il fatto che sia accettabile respingere il dolore che considera l'idea suicida come debole, egoista o codardo e continua a rifiutarsi di impegnarsi nell'auto-riflessione è solo una prova di ciò. Pensare al suicida come debole, egoista o codardo è come incolpare la persona di non poter continuare a vivere in un ambiente che è sempre più inadatto alla vita. Questo è gaslighting (*). Perché siamo più a nostro agio a perpetuare una cultura che sembra rallegrarsi dell'estinzione di sempre più membri in quanto nega ogni responsabilità per la loro morte di quanto stiamo lavorando per creare qualcosa in cui gli esseri umani possano effettivamente prosperare? Cosa siamo diventati?

* Gaslighting: Illuminare a gas, forma di violenza psicologica nella quale false informazioni sono presentate alla vittima con l'intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione.

fonte: madinamerica.com

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